Dicono di noi

"Il cinema dipinto"

di Stefano Dello Schiavo. Galleria d’Arte Mascherino, Roma

(..) Gli artisti del manifesto riescono, con un’infinità di soluzioni, a fondere sinergicamente illustrazioni, titoli, montaggio di immagini e di colori per realizzare quello che è il fine del manifesto, ovvero mostrare l’essenza del film e contemporaneamente colpire l’attenzione del pubblico; grazie all’abilità di alcuni artisti si arriva al paradosso per il quale, mentre col passare del tempo molti film vengono dimenticati, i relativi manifesti pubblicitari assumono una luce ed un fascino differenti, riflettendo sinteticamente i costumi, gli stili e i tempi in cui furono realizzati, entrando così a far parte del nostro patrimonio culturale.(..)

"Il naso sul manifesto"

di Milo Manara, da "Eroi di Mille Leggende", 1993- Grafis Ediz.

Da bambino pensavo che gli autori dei manifesti del cinema fossero i più grandi artisti mai esistiti in ogni tempo. Altro che Michelangelo. Altro che Van Gogh.
C’era una tale potenza e contemporaneamente un tale realismo in quelle immagini che ne ero totalmente soggiogato. Mi affascinavano molto di più degli stessi film. Anzi, sapevo benissimo che poi, andando a vedere il film, non avrei trovato quella scena così eloquente, così simbolica che era rappresentata sul manifesto. In un’unica scena, rappresentata a tinte forti e drammatiche, era racchiuso molto di più di quanto il film mi avrebbe poi raccontato in un’ora e mezza.
E poi il manifesto era un oggetto. Era vero, reale, non era un’immagine fuggevole, fatta di luce, che non potevi mai veramente guardare a tuo piacimento. Il manifesto te lo potevi rimirare in pace finché volevi. Potevi abbandonarti comodamente nel tentativo di penetrare il mistero della lucentezza di certe labbra, del bagliore di certi occhi. Le figure non erano mai rappresentate in pose banali, normali, quotidiane. Erano sempre degli eroi còlti nel pieno del loro gesto assoluto.
Al manifesto ti potevi avvicinare tantissimo, fino a toccarlo col naso, e allora le rapide, sapientissime pennellate non si vedevano più. Si stemperavano un nell’altra in masse colorate confuse, fatte di puntini sgranati che, visti da così vicino, vivevano una propria realtà autonoma, segreta, staccata dal film, staccata dalle figure, staccata da tutto.
Credevo di essere il solo ad aver scoperto questa meraviglia. Gli altri si godevano i manifesti da lontano. Alcuni, addirittura, si limitavano a leggerne le parole. Nessuno sapeva di quel brulicare di puntini, laggiù.
Io non ho mai avuto il coraggio di strappare un pezzo di manifesto per portarmelo a casa, ma altri ragazzi lo facevano ed una volta successe che un ragazzo, strappando un manifesto, dividesse a metà il volto che gli interessava e buttasse via deluso il brandello. Ovviamente lo raccolsi io e me lo portai a casa. Era un oggetto che non aveva più nulla di cartaceo, con uno spessore impressionante, fatto di svariate stratificazioni successive, che addirittura sul retro conservava delle chiazze di muro. Lo tenni per molto tempo, scrutandone affascinato i puntini.

"Le volpi della mamma. Ovvero: arte e memoria delle locandine"

di Franco La Polla. Da "Eroi di Mille Leggende", 1993 – Grafis Ediz.

L’arte del manifesto cinematografico: concentrare in un’immagine l’intero plot, riassumere hegelianamente in una "figura" tutte le altre.
Pure, si tratta di una definizione generale e per certi versi astratta. A differenza dal film – che è quello che è – nel caso di opere straniere il manifesto (e la locandina) si adatta alla cultura ospitante, denuncia non solo i sogni di quella che ha concepito il film ma anche di quella che lo riceve.
In questo senso il manifesto equivale a una recensione popolare invece che dotta, a uno sguardo sull’opera che non è solo colto ma vivace, fresco, attivo, creativo. Esso ne coglie il potere mitopoietico, il senso di avventura, di forma, di fascinazione, l'impressione di un volto, l’epifania di una situazione. E lo fa con le sottolineature dell’eccesso, dell’evidenziazione, della denotazione forte e retorica.
Il manifesto si assume il difficile compito di mantenere nell’immobile la drammaticità di espressioni e situazioni, e lo deve fare nel rispetto dei fantasmi che la cultura ospitante ha sedimentato, nella coscienza di esperienza della storia e della cronaca che il film non propone necessariamente: una sorta di "doppio film" che riassume quello originale e che nel contempo tiene conto di quanto il potenziale spettatore è diverso da quello nativo.
Una riflessione del genere richiederebbe ben altro che qualche pagina commentativa, e del resto gli studi in questo senso sono in Italia già incominciati. Ben consci dunque di questo meccanismo di differenza culturale che si risolve in adeguamento dell’immaginario nei dettagli, nello stile, nei modi di presentazione dell’immagine, quale discorso iconografico suscita il tesoro figurale dei manifesti e delle locandine di un cinema che di per sé è da tempo entrato nel mito? Quali sogni rievoca, quali notazioni suggerisce, quali segreti – del resto mai celati – esso rivela?
La dominante della composizione si identifica nella giustapposizione di un primissimo piano disegnato e di una fotografia a campo più largo che ritrae usualmente più attori. E' un po’ come servire allo spettatore un campione diretto di quel che nel film troverà ed uno invece che è in anticipo una distorsione onirica. Niente di surreale, ma una specie di filtro affidato ad un impiego sovracuto del colore (quasi sempre il rosso e il blu). Insomma, il manifesto si adegua alla natura immaginaria del cinema, e la denuncia subito. E con tale iteratività da non rendere possibile il sospetto di una specificazione ("in questo film John Wayne ha questa valenza immaginaria") ma da trasmetterci subito, e intensamente, che quello è il modo in cui l’attore o l’attrice resteranno – come già sono – nel nostro immaginario indipendentemente dalla parte che rivestono nella singola pellicola.
Il manifesto insomma è una celebrazione del mito attoriale (e più largamente cinematografico) e come tale esso intende attrarre lo spettatore, sollecitarne la fantasia e la stessa memoria.(..)

"Il cinema raccontato sui muri"

Cent’anni di cinema. L’opera dei maestri italiani in mostra a Roma. Da decenni segnano il primo incontro coi film. E ora fanno parte della memoria di tutti

di Silvia Di Paola."Il Resto del Carlino", 24 novembre 1995

Roma – Il cinema? E’ un mondo di storie tradotte in bozzetti grandi quanto quadernoni di scuola. Un percorso in cui ci si può perdere per una manciata di immagini improvvisamente gettate contro i tuoi occhi di spettatore. Cioè di potenziale divagatore. Cioè di avido sognatore. (..)
Dice Carmine Cianfarani, presidente dell’Anica: "Ricostruire la storia del cinema attraverso l’opera dei pittori del cinema è una scelta che finora nessuno aveva mai pensato di adottare, almeno non in maniera così ampia ed articolata, e soprattutto attraverso bozzetti originali, vere e proprie opere d’arte, piuttosto che attraverso i manifesti stampati". E, si capisce, che questo è il modo con cui un’istituzione fondamentale come l’Anica intende rimediare ad una grave lacuna: alla dimenticanza di uomini e professionalità che hanno sintetizzato l’incontro tra arte e impresa.
Perché, si sa, il cinema non ha mai smesso di celebrare i suoi registi e i suoi sceneggiatori, i suoi attori e i suoi scenografi, i suoi direttori della fotografia e i suoi costumisti, e i suoi direttori della fotografia e i suoi costumisti, i suoi compositori e i suoi produttori. Ma chi li ricorda, oggi, questi disegnatori e questi pittori che su un foglio grande quanto due palmi di mano esprimevano, fino alla metà degli anni Settanta, il tentativo di catturare e affascinare il pubblico attraverso l’esaltazione degli elementi creatori di un’atmosfera e, dopo, quell’irrinunciabile artigianalità che è componente essenziale del cinema, anche oggi, dentro l’universo computerizzato? Pochi, pochissimi, un nugolo di cinefili e i soliti addetti ai lavori. Eppure i loro disegni e i loro colori appartengono alla memoria di tutti.(..)ntende attrarre lo spettatore, sollecitarne la fantasia e la stessa memoria.(..)

"Stelle di carta"

Un secolo di grandi film brilla su manifesti da collezione. Quando l'Italia faceva scuola

di Serena Comelato. "Arte", dicembre 1995

La fabbrica dei sogni ha passato ottant’anni buoni a farsi pubblicità con i manifesti, e quei fogli di carta, come le canzonette, sono diventati lo sfondo di milioni di privati amarcord capaci di "riportarti a certi momenti della tua vita, impedendoti di perderli", come sosteneva un’autorità in materia, Federico Fellini. Disegnati da centinaia di artisti geniali o mediocri, tirati in migliaia di copie, i cartelloni cinematografici iniziavano la loro parabola, intonsi e smaglianti, sui muri del centro e all’ingresso delle sale di prima visione, per poi seguire la pellicola in quelle di seconda e di terza, nei cinema di provincia e tra le precarie attrezzature degli oratori, via via sempre più scassati e frammentari. Qualcuno, finiti la programmazione, convinceva il gestore a vendergli per poche lire (o pochi dollari o pochi pence) le locandine o i manifesti di un film che era diventato parte della sua vita. Chi ha conservato questi cimeli oggi potrebbe accorgersi di aver fatto un discreto affare: le affiches d’epoche (dai primi del secolo alla fine degli anni 60) sono diventate un oggetto di collezionismo sempre più ricercato. Fino a record che, impensabili in Italia, sono stati raggiunti negli Stati Uniti, dove c’è il maggior mercato per questo genere di colectibles: un manifesto originale del Frankenstein del 1931 di James Whale è stato comprato per quasi 250 milioni di lire in un’asta a Hollywood del 1993. Era lo steso manifesto che all’uscita del film costava 10 cents ai gestori del cinema: se ne conoscono quattro copie superstiti, e ciò spiega il record. La rarità è il lievito delle quotazioni in questo mercato, dove i pezzi più ricercati – come i manifesti dei classici americani degli anni Venti, Trenta e Quaranta, dagli horror movies a Chaplin, dai western alla fantascienza – sono scomparsi negli anni, incollati sui muri o mandati al macero. "Di alcuni classici come Riso amaro non esistono originali – spiega Stefano Dello Schiavo del Mascherino di Roma, una galleria d’arte che però – per passione del titolare, collezionista in proprio – segue questo mercato abbastanza da allestire, la primavera scorsa, una bella mostra, Il cinema dipinto. "Se negli Stati Uniti si potevano tirare anche quindicimila copie di un’affiche, in Italia si viaggiava sulle tre-quattromila. Paradossalmente, allora se ne stampavano più di adesso, perché una volta i cinema erano molti di più". La competizione, quindi, è forte; i prezzi sono destinati a salire, soprattutto in Italia, dove questo mercato prospera solo da un paio d’anni. E i collezionisti vanno dove li porta il cuore: comprano un manifesto perché sono affezionati a quel film, o perché sono dei fan di un attore, come John Wayne, James Dean, o Bogart. E’ stato proprio un collezionista americano amante di Bogey a segnare, pagando più di 40 milioni da Christie’s Londra lo scorso marzo, il record per un cartellone italiano, quello disegnato nel 1945 da Luigi Martinati per Acque del Sud. Martinati, con Anselmo Ballester e Alfredo Capitani, forma la massima triade di illustratori italiani, gli unici collezionati anche fuori dal nostro paese. "Comunque, il valore di un cartellone, dipende dal film e dall’attore a cui è legato, molto più che dalla firma del disegnatore", dice Bettina Rosenfeld di Butterfield & Butterfield, la casa d’asta californiana che, a Los Angeles, organizza periodicamente vendite di memorabilia filmiche e vintage movie posters. In queste asta passano soltanto manifesti, di vari formati. "Invece in Italia, quasi tutti i collezionisti, per ragioni di spazio e praticità, hanno comprato locandine, il cui valore è quasi nullo", dice Dello Schiavo. Che ha un occhio di riguardo per due sottospecie di questo collezionismo: i manifesti d’artista e i bozzetti. Da Guttuso (per Riso amaro) a Vespignani, Da Baj (per Cadaveri eccellenti) a Mondino, gli artisti italiani hanno incrociato le loro strade con quelle del cinema, e vale la pena di cercare qualche campione di questa produzione. Nella trafila di stampa, invece, il bozzetto originale (di solito una tempera su carta) finiva perlopiù distrutto. Ma quelli che sono rimasti, firmati da grandi come i fratelli Enzo e Giuliano Nistri, Angelo Cesselon, o Anselmo Ballester, possono valere più del manifesto finito. Oppure costare poche centinaia di migliaia di lire. La cosa più difficile è, avverte Dello Schiavo, raccapezzarsi nel carosello di tirature. Le prime edizioni spariscono rapidamente (non ne esistono per tutti i film di Dean), e, quando ci sono, la differenza è abissale: la prima tiratura dell’affiche di una pellicola recente come Terminator vale un milione di lire, mentre i poster successivi costano 5-10 dollari. Ma sono le estreme propaggini di un mercato che invece prospera ad altri livelli di prezzo. "Un buon manifesto costa 10-15 milioni", dice Dello Schiavo. Tanto spende, in media, un collezionista per appendere in casa propria una fettina di storia del cinema, e un pezzo di quella stoffa – come diceva Bogey – di cui sono fatti i sogni.rre lo spettatore, sollecitarne la fantasia e la stessa memoria.(..)

"Note per una storia "materiale" del cinema"

di Vittorio Boarini. Da "Eroi di mille leggende", 1995, Grafis Ediz.

(..) Tale pubblico, primo giudice delle opere cinematografiche, è "indotto" a fruire i film anche a tipici meccanismi promozionali dei quali fanno parte integrante e fra i quali hanno, ed hanno avuto, soprattutto in passato, una funzione decisiva i manifesti.
Non intendo qui soffermarmi in termini storico-filologici sull’importanza documentaria dei manifesti e sulla conseguente necessità di metterli a disposizione dei ricercatori o di ordinarli in insiemi coerenti per un pubblico non specializzato, ma non posso tacere il caso più clamoroso (e più ovvio) in cui la funzione postuma del manifesto assume un’importanza decisiva.
Come non a tutti è noto, l’arte cinematografica è, fra tutte le arti, la più intrinsecamente deperibile (il supporto materiale dei film si degrada più o meno rapidamente, ma inesorabilmente) e, anche per complesse ragioni socio-economiche, la più soggetta a distruzione. E ciò non solo per quanto riguarda il passato (dalle origini agli anni Trenta si calcola che di tutti i film prodotti nel mondo ne resti a malapena il 20%), poiché anche film relativamente recenti, come molti film italiani degli anni Settanta, per esempio, sono andati irrimediabilmente perduti.
Succede allora frequentemente che di un film resti soltanto, a futura memoria, una documentazione cartacea (la carta, è noto, sfida i secoli, o sfidava, con grande sicurezza) e che l’unica fonte iconografica, attraverso la quale avere almeno un’idea visiva dell’opera perduta, siano alcune fotografie o una serie di locandine e di manifesti.
In tal modo il manifesto, in particolare se riportava uno o più fotogrammi del film a cui si riferiva, può essere l’unica testimonianza iconografica di un’opera perduta, l’unico elemento che ci consenta di conservare almeno un’immagine di un film scomparso. Questo, per portare un esempio solo ma particolarmente cospicuo, è il caso di Sperduti nel buio (Martolio, 1914), mitico film italiano del quale ormai nessuno può avere memoria diretta. Trafugata l’unica copia esistente, almeno così pare, dalla Cineteca nazionale ad opera dei nazisti e mai più ritrovata, ciò che sappiamo di questo film lo dobbiamo a testimonianze scritte, anche assai autorevoli, le quali ci fanno ritenere senza ombra di dubbio che fosse un’opera di fondamentale interesse per la storia del cinema muto italiano (ebbe anche uno straordinario successo di pubblico ed un remake, girato nel 1947 e interpretato da De Sica, che collaborò alla sceneggiatura con Cesare Zavattini e Aldo Vergano). La memoria visiva di un frammento significativo dell’opera è affidata all’iconografia cartacea, grazie alla quale i protagonisti del film, Virginia Balistreri e Giovanni Grasso, possono restare nel nostro immaginario con notevole forza evocativa.
Non spetta a me soffermarmi sui criteri che hanno informato la mostra, poiché altri intervengono autorevolmente sull’argomento in questo stesso catalogo. Voglio solo insistere sul fatto che, nel periodo a cui i manifesti appartengono, questa forma pubblicitaria costituiva la prima e fondamentale notizia che gli spettatori ricevevano di un film e che su di essa si fondava spesso la decisione del singolo di andarlo o meno a vederlo. Le case di distribuzione, quindi, per confezionare i manifesti dovevano basarsi sulle tecniche di comunicazione di massa e tenere in debito conto la psicologia del pubblico a cui si rivolgevano, cosa che comportava spesso di differenziare la forma espressiva nella quale si portava un film all’impatto con i possibili spettatori a seconda dei paesi nei quali veniva diffuso. Se a ciò si aggiunge che non infrequentemente si ricorreva a grafici di sperimentata abilità e, a volte, affermatisi per le indubbie doti squisitamente creative, si avrà un quadro schematico, ma chiaro, del rilievo che i manifesti assumono nella riscrittura attualmente in corso della storia del cinema. Si può anche aggiungere che non è raro trovare manifesti il cui bozzetto fu eseguito da un grafico di straordinario talento o, addirittura, da un pittore che si esercitava anche nella grafica; manifesti, cioè, che possiedono anche un valore estetico indipendente dal loro soggetto specifico. Questo aprirebbe un altro e più complesso discorso che meriterebbe una trattazione a parte, anche in considerazione del fatto che Bologna offre alcuni illustri esempi in questo senso; primo fra tutti quello di Severo Pozzati (SePo), operante per molti anni a Parigi e autore di un film di avanguardia, Sinfonia Bianca, prodotto dalla Felsina Film e ritenuto perduto.
Per parte mia segnalo solamente, a chi vorrà raccogliere l’indicazione lo straordinario interesse di tale argomento, mentre formulo, a conclusione di queste annotazioni, l’auspicio che continui a crescere l’interesse anche per i materiali cinematografici non filmici, e di conseguenza si potenzi l’intervento teso alla loro conservazione da parte delle istituzioni a ciò preposte, contribuendo così ad affermare la concezione, ancora purtroppo minoritaria, che il cinema e la sua storia si fondano su uno spettro assai ampio di testimonianze e di reperti (cui aggiungo, per completezza, le tecnologie), senza la disponibilità materiale dei quali la comprensione della settima arte, del significato profondo della sua quasi centenaria vicenda resterà in larga misura parziale., sollecitarne la fantasia e la stessa memoria.(..)

"Le icone del desiderio"

di Sergio Naitza. Da "Il cinema immobile", L’Alambicco – 1997

Una collezione di manifesti di cinema. Passione e mania comune, banale, anche infantile. Ma con una "perversione" tutta particolare: solo manifesti di film popolari, la feccia dei generi e sottogeneri, la serie Z. Titoli che a sentirli oggi ti vien da ridere, eppure fino a vent’anni fa reggevano le sorti economiche dell’industria cinematografica italiana. Perché allora le sale erano frequentate, il film poteva cambiare da un giorno all’altro e il pubblico comunque gradiva, Non c’era l’invadenza oppiacea della tv, il cinema era passatempo e trasgressione, abitudine e relax. Qualunque fosse il menù.
Era bello, allora. La vertigine del sogno, l’ozio del corpo perso in una tensione magmatica, la sicurezza del bozzolo scuro che accendeva passioni e desideri, l’utopia a portata di mano. Perché questo era il vero miracolo: un western stiracchiato, un horror sbiadito, un poliziesco fragoroso, un erotico tedioso, un comico annacquato, un melodramma da sbadiglio, un giallo asfittico, avevano la stessa energia, nella loro insulsaggine trovavi sempre un appiglio magnetico. Poteva essere una battuta, una sequenza bislacca, un corpo di donna. Poteva essere un furioso duello, un estenuante inseguimento, un bacio romantico, uno sketch da avanspettacolo.
Come impossessarsi di tali sensazioni, come poterle continuare a proiettare dopo che il film era finito? Inscatolare tutto nella memoria, stipare emozioni e brividi, per esempio: ma con il rischio di cadere nei buchi neri dell’amnesia. C’era solo un modo, dunque: appropriarsi di un pezzo di film, nella sua icona, della sua anima: il manifesto. Ovvero il film morto, immobilizzato nella sua maestosa fisicità, ritratto tombale grondante di illusioni, cornice colorata per rimemorizzare la storia o resuscitare l’amato divo, moviolone cartaceo di sentimenti di sentimenti da ripassare al rallentatore. Non esistevano le videocassette, venti, venticinque anni fa e la tv non ingurgitava e vomitava la pellicola ad ogni ora: adesso si può replicare ossessivamente fino a consumarla, a svilirla nella sua misteriosa alchimia, l’immagine di un film. Ma allora potevi soltanto affidarti al manifesto per riassaporare lo sfrigolio eccitante di quella pellicola che t’aveva divertito, commosso, affascinato, turbato. Il manifesto era l’unico mezzo per un viaggio iniziatico, la porta segreta verso un’altra realtà che percepivi frastornante, un bollire di umori e vibrazioni. Era una promessa di seduzione, un’esca alla quale abboccavano il tuo tatto, olfatto, udito, vista; il manifesto ti chiamava ad una maliziosa complicità, ti stordiva con un titolo magniloquente che mai manteneva quel che prometteva, ti incantava coi suoi colori sgargianti e un disegnone rozzo, sulfureo, elettrizzante oppure inusualmente folgorante, originale e raffinato.
Rubare il manifesto, chiederlo in prestito e non restituirlo, convincere il gestore a conservarne uno tutto per te, "sì anche quelli piccoli per favore", qualche volta frugare nei cassonetti dei rifiuti: era un rito strabico, gestito dall’incoscienza della passione, via crucis che sfidava ogni faccia tosta. La consolazione era d’essere in buona compagnia: lo faceva Francois Truffault che in Effetto notte sognava da bambino di rubare le locandine di Quarto potere. Come dire, un atto di cannibalismo, il modo definitivo di impossessarsi del cinema. IL manifesto è un film ingessato, bloccato e chiuso nella cornice dell’inquadratura: se chiudi gli occhi e poi li riapri trovi sempre davanti il tuo oggetto d’amore, mentre il film si muove, cammina e automaticamente si trasforma.
IL manifesto è un muscolo teso e bloccato in uno sforzo, è la morte del film ma anche la sua resurrezione, è reliquia e sguardo che ci guarda. (..) 
Il gioco in fondo è quello di andare a rileggere il cast per scoprire nomi scivolati nel nulla oppure oggi rivalutati dalla critica, ritrovare facce che nel sogno adolescenziale erano state promosse a miti. Imbattersi nel film visto tanti anni fa in chissà quale sala e riconoscerlo come quando si incontra un vecchio compagno d’infanzia. IL manifesto parlava e parla: ci racconta di un’epoca che pativa la severa mannaia della censura, privilegiava la donna-oggetto e l’uomo-eroe, gigioneggiava con la goliardia e la barzelletta, le pulsioni di libertà ed eccessi di avventure strabilianti. E quando non sbatteva, appetitoso antipasto, i fotogrammi o le scene più forti del film, il manifesto affidava ad una stirpe di creativi pittori- ormai mandata in pensione, purtroppo- il compito di reinventare la suggestione della storia. Che stuzzicava, solleticava, imbrogliava l’indeciso spettatore. A loro, a questi geniali cartellonisti, va il merito d’aver costruito il nostro immaginario, d’aver allenato a nuove percezioni il nostro nervo ottico. Un artigianato di qualità vissuto nell’ombra, un esempio di comunicazione diretta fondata sul pennello e non sul computer. Nei loro lavori c’è la quintessenza del cinematografo, il suo essere Jekyll e Hyde allo stesso tempo: arte e mercato, alta pittura e semplice illustrazione, inventiva creativa e sarabanda di stereotipo.
Detriti della memoria, lacerti d’un corpo avvizzito, riflessi e bagliori lontani di emozioni sopite, questi manifesti chiedono solo d’essere guardati con lo stesso spirito di rumorosa, allegra, grata partecipazione dello spettatore di venti, trent’anni fa. Anche loro, semplici lenzuola di carta, sguaiati imbonitori appesi ad un muro, fanno parte della grande famiglia del cinema.

"Prefazione"

In "Eroi di Mille Leggende", 1993 - Grafis Ediz.

di Ezio Raimondi, Presidente dell’Istituto per i Beni culturali della Regione Emilia-Romagna

(..) Intanto non sembra dubbio che , al di là della distinzione tra cultura "alta" e "bassa", tra arti maggiori e minori, i manifesti cinematografici costituiscono a pieno titolo un bene culturale: un bene culturale da conservare, catalogare, studiare e valorizzare, non solo in quanto supporto documentale prezioso per la storia del cinema, ma anche come espressione artistica autonoma, repertorio di una mitologia moderna ma stratificata (come sapeva già Aby Warburg), enciclopedia "a dispense" dell’immaginario di un epoca. Ed è un’epoca ancora prossima a noi, ma già oggetto di ricordo e forse di nostalgia, quando, prima dell’avvento totalizzante della televisione, il manifesto era l’unico strumento pubblicitario a cui potevano affidarsi le case di distribuzione cinematografica. Ma va subito aggiunto che si tratta di uno strumento comunicativo solo in apparenza povero e schematico; in realtà, come spiega con la consueta acutezza Antonio Faeti in uno dei saggi del catalogo, la sua retorica si dimostra estremamente efficace, insinuante, di grande suggestione e potenza evocativa. Ciò emerge anche, con il fascino dell’autobiografia personale, nei ricordi di Federico Fellini e Milo Manara e nella testimonianza "dall’interno" di un autore inventivo come Silvano Campeggi. Conviene dunque fermare l’attenzione sul "corpus" di forme, contenuti, tecniche compositive, soluzioni grafiche di questi racconti fulminei di una pagina, riscoprendo il meccanismo che governa la loro capacità di condensare una trama e una narrazione complessa in un’immagine assoluta immediatamente significativa, insieme con il rapporto di complicità veloce e felice, che si instaurava sempre con il pubblico più diverso. (..)uro, fanno parte della grande famiglia del cinema.

"Come ti manifesto il film"

Cinema al muro

di Franco Montini. "Il Venerdì" di Repubblica, 28-4-1995

Roma. La più bella definizione l’ha coniata Fellini: "I manifesti cinematografici" diceva "sono come le canzonette: ti riportano a certi momenti della tua vita, impedendoti di perderli. Ti riportano non tanto e soltanto al film, quanto alle loro stagioni, al clima e al sapore di un’epoca".
Verissimo: il manifesto cinematografico, infatti, è sempre figlio del suo tempo, si distingue da ogni altra forma di pubblicità perché è una summa di umori, sapori, immagini, suoni, atmosfere di un certo periodo. Una sorta di specchio in cui si riflettono i costumi, la moda, i gusti di un’epoca. Proprio per questo, col passare degli anni, i manifesti di cinema assumono un fascino particolare, diventano tutti, belli o brutti che siano, originali o banali, interessanti o evocativi. Da qui la nascita di un collezionismo con quotazioni ormai milionarie, l’approdo nei templi dell’arte. A Roma, alla galleria Il Mascherino, fino al 27 maggio, ha successo la mostra "Il cinema dipinto", manifesti, bozzetti originali, schizzi preparatori, disegni, firmati da una trentina di artisti storici. Accanto ai cartellonisti di professione, non mancano presenze illustri di pittori che occasionalmente si sono dedicati al cinema: da Guttuso di cui è esposto un disegno per Riso amaro, a Cagli autore di un rarissimo manifesto di Accattone, da Vespignani, coinvolto da Francesco Rosi per I magliari, a Cambellotti di cui si possono ammirare i due manifesti dei primi del secolo: Frate sole e I condottieri. La mostra del Mascherino, aperta il pomeriggio dal mercoledì al sabato, è nata da un’approfondita ricerca presso collezionisti, case cinematografiche, tipografie, gli stessi cartellonisti o i loro eredi. Gran parte degli originali, infatti, sono andati perduti o finiti chissà dove; per un lungo periodo nessuno si è mai preoccupato di conservare bozzetti e schizzi, che il più delle volte finivano per marcire in depositi e scantinati umidi. Neppure i diretti interessati hanno avuto la capacità di prevedere che i loro disegni sarebbero diventati merce pregiata, forse perché abituati, per anni, a scarsissima considerazione da parte dei committenti.
Il numero dei cartellonisti di cinema, anche negli anni d’oro del consumo di film sul grande schermo, è esiguo: il lavoro richiedeva tempi di realizzazione rapidissimi, una disponibilità pressoché assoluta, era economicamente poco remunerativo e scarso di soddisfazioni personali.
Eppure in epoca pre-televisiva il manifesto cinematografico è stato l’unico strumento per promuovere un film e informare il pubblico. Riconoscibile, immediato, vistoso, volutamente manicheo, il manifesto invitava a una netta distinzione tra buoni e cattivi, protagonista e antagonista. Doveva far sognare e muovere il desiderio: importante il tema dell’erotismo; sui manifesti degli anni ’30, ’40, ’50, indipendentemente dal genere, trionfano le maggiorate, le bellezze spudorate, le pose equivoche, le passioni irrefrenabili...
Il divismo celebra i propri trionfi con gigantografie di attori ed attrici che appaiono ancora più belli, più affascinanti, più desiderabili di quanto non siano nella realtà...
Ma il manifesto svolgeva anche la funzione di cartellone del cantastorie, riassumendo in poche scene tutti i momenti topici della storia indicando chiaramente attraverso alcuni oggetti feticcio (una pistola, una spada, un pugnale) il genere di film.
Per un ventennio, dall’inizio degli anni ’30 alla fine degli anni ’40, Ballester, Capitani e Martinati esercitano una sorta di monopolio. Solo dopo la guerra si affacciano altri: Ercole Brini, Rinaldo Geleng, grande amico di Fellini, Enrico De Seta, caricaturista che lavorò con Fellini al "Marc ‘Aurelio", Angelo Casselon, il ritrattista principe del nostro cinema, Manfredo Acerbo, il più innovativo, Silvano Campeggi che si firma Nano, Ermanno Iaia, Sandro Simeoni, i fratelli Giuliano ed Enzo Nistri, alcuni lavorano ancora ma da pittori, perché i manifesti di cinema si continuano a fare, ma la fotografia ha sostituito la pennellata, e il fascino di una volta andato irrimediabilmente perduto.più diverso. (..)uro, fanno parte della grande famiglia del cinema.

"Pittori di cinema"

di Sergio Naitza. Da "Il cinema immobile","L’alambicco"-1997

I muri delle città e dei paesi erano le loro gallerie. Con due segni artistici, un ritratto, un gioco di grafica e di colori mandavano al cinema milioni e milioni di persone. Parlavano attraverso il manifesto: un altro schermo capace di sedurre, di far sognare e fantasticare. Hanno costruito il nostro immaginario cinematografico, ci hanno insegnato a vedere usando spesso buon gusto e raffinatezze. Perché dietro ogni manifesto c’era un pittore. Oggi il mestiere di cartellonista s’è quasi estinto, scalzato dal computer, comunque ha cambiato pelle radicalmente. (..)
Adesso si riparla del cartellonismo attraverso mostre e collezionisti, ci si accorge di un patrimonio estetico e culturale troppo a lungo sottovalutato. E che ha bisogno di una sistemazione critica e storica seria, al di là di cataloghi e libri illustrati: è il giusto modo di risarcire questi artisti che ci hanno regalato emozioni e desideri.miglia del cinema.

"Cinema dipinto"

Il manifesto d’arte

di Priscilla Del Ninno. Il Secolo d’Italia, 10 giugno 1995

(..) Da "La strada" di Fellini a "Sentieri selvaggi" di John Ford, passando per "Colazione da Tiffany" e "My fair Lady" – cioè, queste ultime due pellicole che più di qualunque altro film hanno immortalato la grazia deliziosa dell’indimenticabile Audrey Hepburn – sembra quasi un vivere, in carne ed ossa, un lungo, emozionante, piano sequenza.
Scenari western, immagini horror, ritratti di donne: le locandine ripropongono le scene o i volti più significativi delle pellicole più famose. Nella rassegna risalta l’eleganza e lo smalto delle opere di due grandi cartellonisti italiani: Giuliano Nistri (La Strada, My fair Lady) ed Enzo Nistri (Colazione da Tiffany, Sentieri Selvaggi).(..)ioni e desideri.miglia del cinema.

"Pittori sul grande schermo"

di Giovanna Grassi. "Corriere della Sera", 24 novembre 1995

Cinema e pittura, vocazione figurativa e gusto narrativo: un binomio collaudato all’insegna del piacere dell’occhio. (..)
Il rapporto tra il cinema e la pittura è molto complesso e lo sta diventando sempre di più in un’epoca all’insegna dell’immagine elettronica. Anche i manifesti cinematografici, che spesso sintetizzano un film in una sola immagine plateale, sono diventati molto sofisticati.
Di fronte a certi bozzetti di ieri sembrerà davvero di ammirare tanti "tableaux vivants", che riporteranno attori celeberrimi, come Marlon Brando in "Queimada" di Pontecorvo, Spencer Tracy in "Capitani coraggiosi", Humphrey Bogart in "La città è salva", Aldo Fabrizi in "Benvenuto, Reverendo", Romy Schneider in "Sissi a Ischia", Leslie Caron indimenticabile "Gigi", Charlton Heston sulla biga di "Ben Hur", i golosi Ugo Tognazzi – Marcello Mastroianni – Michel Piccoli – Philippe Noiret e Andréa Ferrol in "La grande abbuffata"... L’elenco è lunghissimo, ricco di sorprese, ma, al di là dei film e degli attori più noti, che, spesso, nell’iconografia e nel tratto riportano tutta la fascinazione del loro divismo di ieri, sarà molto interessante scoprire le personalità, le carriere degli artisti del pennello. (..)

Dal catalogo della Mostra "Il cinema dipinto"

Palazzo delle Esposizioni Roma, 22 novembre 1995

di Carmine Cianfarani, Presidente Anica 

Da sempre il Cinema celebra i suoi autori, registi, attori, direttori della fotografia, compositori, scenografi, costumisti, produttori, distributori, ed altre importanti figure professionali e tecniche, ma mai chi per questo nostro settore mette a disposizione la propria arte pittorica per rappresentarlo e narrarlo verso il pubblico. Si tratta di artisti di elevato talento che, attraverso la loro opera, concorrono a creare l’immagine di un film, contribuendo al suo successo. Parliamo di pittori che meriterebbero anche una maggiore attenzione e considerazione artistica in senso assoluto. La pittura cinematografica può essere considerata l’espressione di sintesi dell’incontro tra arte ed impresa, all’interno di una concezione del Cinema che deve far propria l’immagine del settore in quanto realtà che compone forze artistiche, tecniche ed imprenditoriali.
E' infatti chiaro che la pittura cinematografica, almeno fino alla prima metà degli anni Settanta, ha espresso il punto più alto dell’azione comunicazionale e promozionale finalizzata ad affascinare e catturare il pubblico attraverso l’esaltazione di atmosfere e situazioni cinematografiche che solo un vero artista è in grado di raccogliere ed esaltare in un’unica immagine pittorica. Con questa iniziativa si vuole dunque celebrare il Cinema, ma anche l’Arte pittorica che in esso si esprime e che contribuisce con le sue linee, tinte e figure, a rafforzare la cultura cinematografica nel nostro Paese e nel mondo. (..)
Ma, ciò che può essere considerato un limite oggettivo di questa iniziativa, ne rappresenta anche la sua forza: costituire un primo tentativo di rendere il giusto riconoscimento ai pittori cinematografici raccontando, al contempo, la storia del cinema attraverso loro (..)

"Eroi di Mille Leggende"

di Concetto Pozzati, Assessore alla Cultura del Comune di Bologna 1993- Grafis Ediz.

(..) Volti, parate, addizioni, sequenze; Lo scassinatore, Il ladro, La strada. Tarzan, La magnifica preda, Senso, tamburi (lontani?) e richiami, La fuga, L’ultimo atto, invasione, ultimatum, dilatazione fuori scala, la Verità...quasi nuda, occhi, ancora occhi e mani, forme arabescate e avviluppate, titoli, caratteri ombrati e assonometrici.
Faccio ancora il pittore; che sia "io un evaso"? oppure Il Gigante con J. Dean mi riporta al "gigantismo" di quel grande "pop" che è J. Djne. Come posso dimenticare che le immagini cinematografiche sono state la nostra palestra iconica degli anni Settanta?
Sì, lo si sa, sono figlio e nipote di due tra i più grandi cartellonisti (e artisti) internazionali. Anche loro facevano solo "réclame", cioè richiamo, propaganda, diffusione manifesta, messaggio. Non era ancora specializzazione pubblicitaria, forse non precipua divulgazione e "promotion". Ma i loro tableaux erano incollati, collocati, nel museo della strada, fatti e creati per tutti e visti da tutti. Erano "Pop" prima di noi pop. Ma già quel "popular", il (la) "Pop" non era semplice glorificazione delle merci ma il segno stesso, l’immagine, era ridotta a merce e non pura illustrazione del prodotto. Ma i pop hanno ricondotto a segno differente il segno comune della merce perché hanno innescato uno scarto, una valenza diversificata.
Ma anche questi "zii", parenti meno noti, autori di questi manifesti cinematografici, pur non producendo uno scarto perché obbligati ad illustrare abilmente il prodotto, hanno anche loro generato il ...popular. Una lingua bassa rispetto a un lingua d’élite? (..) al contempo, la storia del cinema attraverso loro (..)